L’edizione appena conclusa della Milano Fashion Week è stato il primo tentativo di ripartenza da parte di un settore in crisi da anni, ma soprattutto la stagione in cui i brand e i loro stilisti hanno ragionato sul senso più profondo di fare vestiti.
La città di Milano e la sua famosa settimana della moda, vogliono davvero tornare alla grande e lo hanno dimostrato la scorsa settimana con 64 sfilate di cui ben 23 fisiche e 44 digitali, oltre a presentazioni, appuntamenti e cocktails per quasi 150 eventi presenti in calendario, forse in maniera ridotta rispetto ai tempi d’oro di fine millennio, ma molto più densa di progetti rispetto a quella di New York, Londra e forse Parigi, dove il governo ha appena emanato una serie di restrizioni anti-Covid che rischiano di offuscare la manifestazione appena iniziata (con una stupenda sfilata Dior disegnata dalla nostra Maria Grazia Chiuri).
Distanziamento, mascherine, contingentamento ingressi, è stato tutto rispettato a Milano tanto da ricevere il plauso del Sindaco, ma non per questo ritorno alla normalità, perché è ormai evidente che nulla tornerà come prima della pandemia. Tantomeno la Moda.
Sembrano lontani i tempi in cui la creatività ruotava intorno a temi glamour e aspirazionali (i viaggi, il sesso, la notte…) e in cui si costruivano collezioni audaci e spregiudicate: lavorare alle nuove collezioni è stato per molti stilisti come lavorare su se stessi; chiusi in lockdown da soli o con i familiari, costretti a cambiare le regole dei processi produttivi, aprendo le loro menti in una condizione di creazione completamente nuova.
Innovativa, durante la Milano Fashion Week, è stata Miuccia Prada che proprio con la Collezione 2021 ha iniziato un nuovo percorso con il co-direttore creativo Raf Simons (già in Jil Sander, Dior e Calvin Klein) dove entrambi hanno dichiarato di cominciare a costruire un dialogo da qualcosa che vedono fondamentale nel loro stile, il concetto di uniforme, una base solida e rassicurante sulla quale ad aggiungere e togliere si fa sempre in tempo.
Altrettanto intima la ricerca di Silvia Venturini Fendi che, prima di cedere lo scettro creativo a Kim Jones (Dior Men), ha messo in scena un eredità generazionale, valore fondante del marchio nato dell’idea di due coniugi nel 1925 e portato avanti nel tempo dai loro discendenti: ecco spiegate così le stampe fotografiche che ricordavano affacci su giardini segreti, borse minuscole ricavate da centrini candidi o uncinetti pastello e abiti in chiffon leggerissimo indossato da generazioni di modelle che hanno calcato la passerella dagli anni ’60 ad oggi.
Lo ha fatto naturalmente anche Giorgio Armani, in prima TV su La7 con un documentario di 16 minuti in cui si alternano tante interviste e spezzoni di sfilate, eventi e red carpet, con la voce narrante di Pierfrancesco Favino, seguiti dalla sfilata a porte chiuse ambientata nel Teatro Armani proprio come l’ultima sei mesi fa alla vigilia del lockdown, e una conduttrice, Lilli Gruber, da sempre vestita Armani, simbolo di un’italianità che ha riscoperto il suo orgoglio.
Donatella Versace e il suo team hanno dato vita ad un luogo di fantasia “Versacepolis” che si propone come rifugio sicuro in tempi difficili: un nuovo modo incredibilmente creativo dove abbracciarsi da lontano e da dove emergono prosperose sirene fasciate nelle famose stampe a tema marino che resero famoso il brand a metà degli anni ‘90.
I casting, infatti hanno fatto una grossa parte a dare man forte a questo nuovo desiderio di raccontarsi dei brand: a calcare le passerelle dei grandi nomi o interpretarne i progetti digitali, per una volta non sono state le perfette ma irreali Bella Hadid, Kendall Jenner o Kaja Gerber, ma modelle decisamente più vicine alla realtà come Jill Kortleve, Paloma Elsesser e Precious Lee. Non solo taglie forti, non solo quota “non bianca”, oggi le protagoniste delle passerelle sono scelte soprattutto per le storie che possono raccontare e le persone che possono rappresentare attraverso di esse.
Così per lo show di chiusura di Valentino, che per la sua incursione milanese ha scelto le Fonderie Macchi in zona Bovisa invece di un salone decorato in centro storico, e un gruppo di uomini e donne decisamente poco convenzionali ha indossato le sue creazioni in un ambiente industriale invaso da fiori e piante, per parlare di tempi romantici, fragili e forti allo stesso tempo, proprio come le persone che li interpretano, consacrando l’abbandono definitivo all’esclusività e l’abbraccio di un nuovo codice del marchio sempre più aperto, inclusivo e connesso con le nuove generazioni.
Anche MSGM ha deciso di far parlare la sua moda attraverso storie e volti non convenzionali in cui gli abiti spalleggiano le parole nutrendosi di forza reciproca: e così Marni, Tod’s, N°21, Dolce & Gabbana, Salvatore Ferragamo, per tutti “identità” è stata la parola chiave in questa strana ma bella Milano Fashion Week, non solo nell’immagine da proporre ma anche negli abiti e accessori presentati.
Tornano così i codici che il pubblico ama e conosce: le giacche fluide di Armani, il cappotto cammello di Max Mara, le borse “Rockstud” di Valentino presentate in formato gigante o le fantasie floreali anni ‘70 riproposte su sete e chiffon, il re-nylon di Prada, le stelle marine e le conchiglie di Versace; così come erano già tornate la borsa Jackie di Gucci o la City Bag di Balenciaga, ora Neo-Classic. Perché il mercato là fuori è ancora fragile e gli stilisti hanno reagito così: fragili ma forti.
Di Armando Terribili
Posted by Woman & Bride
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